giovedì 13 giugno 2013

Il lato oscuro della pelle

La pelle, com’è noto, trae origine dall’ectoderma in fase prenatale così come il nostro Sistema Nervoso Centrale, le ricerche negli ultimi anni hanno ribadito gli evidenti e stretti rapporti tra la cute e il Sistema Nervoso Centrale. La pelle è organo di confine, che ci protegge dagli stimoli esterni e funge da organo di scambio tra ambiente interno e ambiente esterno. Ma nello stesso tempo, è un importantissimo organo di senso, che riceve continui stimoli tattici, termici e dolorifici. Questa “zone di confine” è un luogo simbolico sul piano psicologico e, quando si ammala, esprime spesso un conflitto inconscio. Ma possiamo dire di più. Le tante bizzarrie della cute hanno motivazioni oscure che ci riportano come sempre a riflettere sull’ipotetica natura psicosomatica di essa. Mi limito a ricordare al lettore i lavori di autori qualificati del settore, come Fenichel e Sifneos in cui si sosteneva, già 15-20 anni fa, che la pelle in quanto apparato organico più ampio del nostro corpo fornisce un meccanismo di separazione tra l’ambiente organismico interno relativamente stabile e l’ambiente esterno relativamente instabile. E’ anche l’unico sistema accessibile all’osservazione diretta, per cui nel contesto generale dei disturbi epidermici, il termine psicosomatico caratterizza quelle affezioni cutanee che presentano un’alta incidenza di fattori emotivi. Proprio Sifneos riscontrò in un’alta percentuale di malati psicosomatici, una carenza di vita emozionale espressa, una vita fantasmatica ridotta ed una difficoltà ad esprimere le proprie emozioni, a ricordare e a raccontare sogni (anch’essi chiaramente concentrati di affetti ed emozioni). Per descrivere questi pazienti si adotta il termine “alessitimia” (mancanza di parole per esprimere le emozioni, questa la traduzione letterale anche se la difficoltà risiede più che nel descrivere le emozioni nel mentalizzarle). Sia per esperienza personale sia per studi effettuati, uno dei pazienti più “alessitimico” risulta essere di solito il soggetto affetto da psoriasi. Questo tipo di soggetto di solito giunge dallo psicologo dopo una medio-lunga trafila di medici e dermatologi che di regola ascoltano di quale disturbo della pelle soffre il paziente, osserva le lesioni ove siano presenti, emette una diagnosi e prescrive una terapia. Lo psicosomatista invece aggiunge l’ascolto del vissuto del paziente, cerca di conoscere a grandi linee la personalità, i problemi psicoemotivi che lo coinvolgono e passa poi alle conclusioni. La differenza tra la psicosomatica e la medicina è anche questa, ignoro volutamente il dermatologo impreparato (e, ahimè, sono tanti!) il quale, senza neppure pensare di formulare una diagnosi, prescrive subito una terapia. La vis sanatrix naturae e l’effetto placebo spesso aiutano. Ascoltare, con attenzione e partecipazione, il racconto della vita del paziente richiede più di dieci minuti, ma i risultati che si possono ottenere sono soddisfacenti. D’altro canto l’ascoltatore intelligente, anche senza una preparazione psicodinamica valente, finirà con il saper valutare le patologie cutanee in maniera differente dal collega




 “normale”. Ma voglio anche dare per scontato che può chiaramente essere che una patologia dermatologica non abbia effettivamente alcunchè di psichico ma sia puramente organica la sua eziologia. Ma ritengo allo stesso tempo efficiente pensare che OGNI patologia organica dia, in diversa misura, una sofferenza psichica.
Desidero però detenere un cero grado di giudizio critico riguardo la risoluzione di questi “dilemmi psicosomatici” di natura cutanea, ad esempio tornando alla psoriasi saremo noi stesi tecnici psicologi, psicoterapeuti o psicosomatisti a aiutare e sostenere il paziente nella sofferenza somatopsichica e collaborando con il dermatologo e sperimentare varie terapie possibili, ma avviarlo alla psicoanalisi è rischioso. Non confondiamo il sostegno psicologico con la terapia del profondo. Il paziente psoriasico è nel 95% dei casi alessitimico, è in quanto assolutamente incapace di vivere e verbalizzare le proprie emozioni non può che evidenziarle tramite la pelle anche in psicoterapia. Situazioni inconsce conflittuali, bypassando la psiche, si riversano direttamente sul soma. Perchè? Il discorso è lungo ma in linea sintetica non v’è dubbio che nella nostra società la più devastante malattia della pelle è più accettata della malattia mentale, questo va a favore dei pregiudizi della nostro sistema sociale nei confronti di tutto ciò che è psichico (un termine che fa ancora paura perchè sinonimo di ignoto), compresi i malati e anche gli psicologi che non riescono ad inserirsi in ambiti lavorativi per la prepotente ignoranza nei contesti socio-politici-sanitari. Il paziente dunque sceglie inconsciamente il “male minore”. Il sintomo per lui è comunque un’ancora di salvezza e andare a stuzzicare l’anima a volte è sconsigliabile, tecnicamente è facile “desomatizzare” il conflitto, anche in poche sedute, ma c’è il rischio grosso di convertire il sintomo cutaneo in una psicosi. Insomma certe malattie della pelle non vanno indagate più di tanto, è come scherzare col fuoco. Sarebbe più indicata una terapia di sostegno, per esempio una terapia di gruppo in cui le emozioni escano allo scoperto tra persone accomunate dallo stesso problema. Cosa proficua sarebbe, ed il mio è quasi un appello, avviare una complice collaborazione professionale tra psicologi e dermatologi, dove di mezzo non ci siano altri interessi se non il miglioramento dello stile di vita del paziente. Ricordo a tal proposito, e concludo, che Platone aveva avvertito in un suo messaggio che: “Questo è il grande errore dei medici del nostro tempo: tenere separata l’anima dal corpo!”. E sono passati “soltanto” 2300 anni...è mai possibile tanta ostinazione?


Dott. Davide Cinotti


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